La storia ci guida per comprendere l’enigma del manoscritto di Voynich. Villa Mondragone, nel 1865, passò in mano all’ordine dei Padri Gesuiti. Dopo l’unificazione del Regno, parte del fondo della Biblioteca del Collegio Romano venne trasferito qui, per evitare perdite dovute alle massicce confische perpetrate dallo Stato italiano ai danni dei beni ecclesiastici.
Nella prima decade del Novecento, il collegio dei Gesuiti versava in gravi difficoltà economiche. Si decisero, così, a rivendere sottobanco preziosi testi della biblioteca.
Nel 1912 giunge presso Villa Mondragone il newyorkese Wilfrid Voynich, facoltoso mercante di libri antichi. Gli viene presentata una cassa piena di vecchi testi, li analizza rapidamente con occhio esperto. Sfogliandoli incappa in un manoscritto che presenta caratteristiche sorprendenti: redatto in una scrittura a lui sconosciuta, corredato di immagini grottesche e misteriose. Voynich comprese che quel testo poteva valere quanto l’intera biblioteca, ma fu scaltro abbastanza da dissimulare il suo entusiasmo e gettò il libro in pergamena nel mucchio degli altri volumi a cui era interessato. Pagò la cifra pattuita e giurò ai Gesuiti di non rivelare mai la provenienza dei libri acquistati e tornò negli Stati Uniti.
Il testo è formato da circa 250.000 caratteri, una dozzina di questi identici alle abbreviazioni latine in uso presso gli amanuensi fra i secoli XIII e XV. Le illustrazioni –le quali, viste in rapida sequenza, formano delle vere e proprie animazioni.
Molti i tentativi di interpretazione dai tempi di Voynich fino agli studi moderni condotti presso la Yale University, ma nessuno è mai riuscito a fornire una lettura coerente per risolvere l’enigma di quello oramani noto come manoscritto di Voynich. Ogni traduzione presentata di stralci del testo si configura come una sequela sconnessa di vocaboli.
Molti ricercatori hanno speso la loro intera vita cercando di assegnare un senso a questo prezioso manoscritto, fallendo.
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